Nel Testo / Nei Testi
Riccardo Caldura
A volte chi legge i testi di una presentazione di una mostra, ha la sensazione
di trovarsi di fronte ad una lettura molto soggettiva, e alla quale potrebbe
sostituirne un'altra non meno valida. Credo sia una libertà che l'arte concede, quella
dello stratificarsi dei diversi modi di percepire e interpretare. Ma è pur vero che chi
scrive quella presentazione, sembra avere un qualche diritto in più del lettore di <dire
la sua>. Vi sono delle ragioni: legate all'esperienza di frequentare con assiduità
il mondo dell'arte, e all'esprimersi con uno strumento, la scrittura, che non è da
tutti frequentato. Serve dunque molto equilibrio da parte di chi scrive una
presentazione, molto 'buon senso' nell'interpretare la funzione di interfaccia fra pubblico e
artista; 'buon senso' soprattutto nel non cadere nella tentazione di far diventare la
mediazione uno strumento regolativo del contatto fra pubblico e artista, e di
conseguenza trasformandola in un strumento di 'potere' che si applica con una qualche brutalità
ad un delicato snodo di relazioni. A volte forse è meglio deporre, almeno per
un momento, le armi della critica, ritrovando nella forma dialogica le
ragioni dell'opera. Al testo di interpretazione critica si può così sostituire un discorrere dove
il critico non è più il primo interprete ma il primo spettatore. In questo caso se il
critico mantiene ancora un qualche privilegio, è quello di poter, per rapporti di amicizia e
di lavoro, porre delle domande. L'artista, in questo gioco dialogico, si trova però
gettato nella duplice veste di chi fa l'opera e di chi ne dà una chiave di interpretazione.
Ruolo non facile non solo per l'autoanalisi a cui l'artista è, sia pur se
garbatamente, 'costretto'. Quanto soprattutto per il rischio di bloccare in una chiave di
lettura privilegiata, in una interpretazione 'più giusta delle altre' il libero gioco
interpretativo. Se l'opera avesse una chiave di letturama se questa unicità della chiave di lettura
vi fosse, si potrebbe ancora parlare di opera d'arte?
L'artista non ha le chiavi di accesso all'opera, che è pensata, formata per il
pubblico, per un vasto 'noi', e non certo per uno sterile gioco di specchi di un 'io'
(quello dell'artista) più 'io' degli altri. Non ha le chiavi di
accesso all'opera l'artista, ma di quell'opera è stato pur sempre il più
assiduo compagno, almeno fino a quando non si è aperta la porta dello studio. Non è
dunque dell'interpretazione giusta che ci parla l'artista, ma di un'assiduità, forse
di un'ossessione. Certamente di un congedo. 
[1]
continua [2] [3] [4] [5] [6]
|